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Villa d'Almè: Premio Carlo Castelli

L’ 8 ottobre, presso la Casa circondariale di Bergamo, si è svolta la XIV cerimonia di premiazione del “Premio Carlo Castelli”, legata al concorso letterario promosso
dalla Federazione Nazionale Società San Vincenzo a cui hanno partecipato diversi carcerati in tutta Italia e nella quale sono stati premiati tre detenuti-scrittori che con
le loro riflessioni e i loro testi hanno dato un assaggio di cosa significhi essere solidali da reclusi e in tempo di pandemia.

Il tema proposto “Il contagio della solidarietà vince ogni barriera e ogni pandemia” ha portato alla luce un nuovo concetto di solidarietà e di legami. In un luogo quale il carcere, dove l’isolamento legato alla condizione si è associato a quello specifico della pandemia, ogni gesto di solidarietà, ogni parola detta o ascoltata, assume un significato nuovo e profondo. Le persone detenute hanno dato vita a nuove forme di solidarietà verso coloro che erano fuori ma che come loro erano “chiuse dentro le proprie mura”, raccogliendo generi alimentari, donando sangue, producendo mascherine e raccontando la loro storia.

La scelta di svolgere la premiazione nel territorio di Bergamo assume poi un significato ancora più ampio. Bergamo, così duramente colpita dalla pandemia, e il carcere, luogo della città intitolato a Don Fausto Resmini, sacerdote e cappellano proprio di questo luogo, stroncato dal Covid lo scorso anno.

Personalmente entrare in questo luogo, con il suo lungo corridoio, silenzioso a cui ho potuto accedere solo grazie alla polizia penitenziaria che ci ha fatto strada, lasciando fuori telefono, portafogli, chiavi e tutto ciò che solitamente mi collega al mondo esterno, mi ha fatto sentire insicura, smarrita, quasi a disagio e inadeguata.

Ascoltare in seguito la voce dei ragazzi che leggevano i loro racconti – chi con impaccio, chi con convinzione, chi con passione, chi ancora con amore e orgoglio- mi ha poi invece “obbligato” a riflettere su quante volte con superficialità ed egoismo diamo giudizi sul carcere e i carcerati, diciamo frasi banali o addirittura offensive senza conoscere, senza sapere, ma con la presunzione di sapere tutto, dimenticando la dignità di cui ogni persona è depositaria, il volto di Dio che c’è in ciascuno,  indipendentemente dal reato commesso e la profondità di cui anche la persona che ha sbagliato è portatrice.

Don Dario Acquaroli, direttore della casa del Patronato a Sorisole, ricordando don Resmini, ci ha invitato a «pensare ad ogni singolo individuo» perché ogni uomo ha la sua storia da raccontare, ogni persona vale ognuno merita di essere accolto senza giudizi e pregiudizi.

Questo è uno stralcio del racconto intitolato “Andrà tutto bene” vincitore del primo premio e scritto da Roberto Cavicchia:

Sono sdraiato sulla mia branda e guardo distratto al di là dei miei piedi scalzi la piccola porzione di azzurro a quadretti, l’unica nota di colore in questo posto dove tutto sembra soccombere sotto il peso di una soffocante cappa grigia. Tutto è grigio qua dentro: i muri di questa squallida cella, il cibo, l’aria che respiro, tutto grigio come le coscienze di coloro che vivono qui. Da un momento all’altro l’assistente scandirà il mio nome invitandomi ad uscire per il mio primo permesso premio, ma non so neppure se sono felice per questo; certo lo sarei stato ieri, prima del colloquio con il mio avvocato, prima di sapere….
In tivù passavano le immagini di fosse comuni, di camion incolonnati carichi di bare, di grafici sempre in salita. Aumentavano le disuguaglianze, si allungavano le file di chi chiedeva aiuto per mangiare, ovunque si respirava un’aria di sofferenza e di morte. Come dimenticare i medici morti nel fare il loro lavoro, fedeli a quel giuramento fatto anni prima? Come dimenticare il volto disfatto dell’infermiera che dorme con la testa sulla tastiera di un computer?
Anche dalle carceri, dagli “ultimi”, arrivavano segnali di solidarietà, chi con raccolte alimentari, chi con laboratori per la fabbricazione di mascherine, tutti noi ci sentivamo vicini a coloro che “detenuti” anch’essi, ma ingiustamente, si trovavano a vivere da incolpevoli l’esperienza degli arresti domiciliari. Un disegno divino per cui sembrava non esserci risposta…
«Cavicchia!». Mi metto a sedere sulla branda e guardo la faccia dell’assistente che mi sorride. «Muoviti, prima che ci ripensano». Sbrigo le formalità e mi ritrovo in cima ai tre scalini che mi separano dal marciapiedi mentre la porta si richiude alle mie spalle. Sono fuori!
Alzo lo sguardo al palazzo di fronte, appeso alla ringhiera di un poggiolo c’è un grande lenzuolo bianco su cui campeggia la scritta: «andrà tutto bene». Sì, la vita continua, oggi che si fa sempre più evidente quanto siamo capaci di donarci a chi soffre, oggi che la pandemia ci ha reso migliori, ne sono convinto, andrà tutto bene.